Padoan: più Iva e meno tasse sul lavoro. Taglio Irpef, ipotesi ancora sul tavolo

Domenica 16 Aprile 2017 di Andrea Bassi e Luca Cifoni
Padoan
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La sorpresa è scoprire che Pier Carlo Padoan è un appassionato di Isaac Asimov, lo scrittore di fantascienza che ha inventato le famose leggi della robotica, la prima delle quali dice che nessun robot può nuocere ad un essere umano.

Ministro, qualcuno come Bill Gates sostiene che i robot potrebbero fare di più. Per esempio contribuire al welfare pagando anche loro le tasse?
«In effetti sembra un libro di Asimov. Ma battute a parte, chi dice tassate i robot dice tassate il capitale. Il problema, in realtà, è ancora più complesso, ossia di tassare i profitti che i robot generano ma senza limitare lo sviluppo tecnologico. Per questo nelle iniziative internazionali contro l’elusione fiscale che sottrae risorse ai paesi dove si realizza il profitto l’Italia è in prima fila». 

Sembra di capire che questa tassa non la convince. Una buona notizia per quel pezzo di maggioranza che pensa che lei le tasse voglia alzarle. L’impressione è che si trovi tra due fuochi, uno esterno, europeo e dei mercati, che chiede conti in ordine, e uno interno che invece vuole redini sciolte per favorire la crescita. Come se ne esce?
«Intanto ci sono alcuni elementi di metodo. Il primo è riconoscere che il sentiero tra questi due vincoli è effettivamente stretto. Poi su singole misure ci possono essere idee diverse, io ho le mie ma sono pronto a discutere su temi specifici. Infine c’è il metodo del fuoco amico. Ma su questo non faccio commenti».

Qual è la sua idea per evitare che il prossimo anno Iva e accise aumentino per oltre 19 miliardi?
«La strada passa per ulteriori progressi dell’amministrazione tributaria nella lotta all’evasione, che in parte abbiamo già approvato con il decreto di martedì, per ulteriori margini di efficientamento della spesa e per altre voci che andranno discusse il più serenamente possibile. Come le spese fiscali».

Discutere serenamente di limiti alle detrazioni fiscali sembra quasi un ossimoro. Come avete intenzione di procedere? Qualcuno parla di legare gli sconti al reddito.
«Nelle spese fiscali ci sono le cose più diverse, anche sconti molto settoriali. Il tema andrà affrontato nella sua complessità».

L’Ocse suggerisce di finanziare un taglio cospicuo del costo del lavoro lasciando aumentare l’Iva, soprattutto nelle aliquote più basse. Condivide?
«Il suggerimento dell’Ocse lo si trova nei manuali di finanza pubblica. Non tutte le tasse sono uguali, hanno sulla crescita un effetto diverso. Il dibattito sulle tasse si compone di due parti: uno, alzarle o abbassarle e la risposta è abbassarle. La seconda, su cui mi pare si discuta poco, è quali tasse ritoccare. Va rivendicato quel che è stato fatto negli anni scorsi: la pressione fiscale si è abbassata, ora per le imprese è al di sotto di quella di Francia e Germania. Ma bisogna ricordare che le riduzioni fiscali sono importanti e benefiche ma devono essere credibili, finanziate in modo permanente».

Non ha detto se è d’accordo.
«Lo scambio tra Iva e cuneo fiscale è una forma di svalutazione interna che beneficia le imprese esportatrici, che sono anche le più competitive, le quali non possono più avvantaggiarsi del tasso di cambio. Si tratta di una ricetta classica e siccome io sono anche un tecnico ricordo che nelle scelte politiche non si possono ignorare gli aspetti tecnici, e viceversa. Diciamo che è un’opzione sostenuta da buone ragioni».

Sulla riduzione dell’Irpef, promessa dal governo Renzi, nel Def non c’è traccia. Ci possiamo mettere una pietra sopra?
«La legge di bilancio per il prossimo anno è tutta da discutere. Il Def contiene solo un quadro generale. L’ipotesi non è stata esclusa, non siamo ancora alla fase delle misure esplicite».

Il Def sui saldi di finanza pubblica si potrebbe dire che è attendista. Tutte le scelte sono rinviate all’autunno?
«Non direi che è una linea attendista ma di continuità. I capitoli sono gli stessi che sono stati al centro dell’attenzione del governo in questi anni: spingiamo la crescita sostenendo investimenti privati e pubblici e attraverso le riforme, in un contesto di consolidamento della finanza pubblica, che deve continuare».

Su Pil e deficit c’è prudenza...
«Dipende dal fatto che proprio i margini di finanza pubblica si stanno restringendo, perché dal punto di vista tecnico ci avviciniamo alla chiusura dell’output gap, l’indicatore che segnala quanto un Paese è distante dalla sua crescita potenziale: in questa situazione la richiesta di aggiustamento, secondo le regole europee, è più forte. Anche gli anni scorsi nel Def si delineavano i grandi numeri, rinviando alla legge di Stabilità le manovre specifiche. È nella natura della programmazione. Stiamo usando lo stesso metodo ma i margini sono più stretti e il clima politico più complicato perché, per così dire, siamo in un punto diverso del ciclo elettorale». 

Oltre alle possibili regole europee più stringenti sullo sfondo c’è anche il venir meno della politica monetaria eccezionale della Bce.
«È vero, il Quantitative easing si sta restringendo e lo vediamo nei tassi di mercato che già incorporano questa tendenza. Ma la gestione del debito in questi anni di tassi bassi è stata molto efficiente, abbiamo accumulato fieno in cascina. Il costo del debito andrà aumentando ma non ci sarà una drammatica inversione di tendenza».

Tra i motivi che suggerirebbero di attendere c’è anche l’idea che in prospettiva nelle regole europee potrebbe essere iniettata ancora un po’ di flessibilità. È realistico?
«C’è un’idea che si sta facendo strada. Nell’ambito dell’Eurogruppo stiamo constatando che l’economia europea e della zona euro in particolare sta andando verso un inasprimento delle politiche di bilancio troppo brusco. Le cose vanno moderatamente meglio, è vero, ma un aggiustamento di bilancio brusco potrebbe essere controproducente». 

Come si fa a tener conto di questo problema? 
«Si cerca di capire come alcuni indicatori possano essere considerati con più flessibilità. Il tema è legato proprio alla famosa questione del prodotto potenziale, perché gli obiettivi dei saldi strutturali si calcolano su questa base. Questo indicatore per alcuni Paesi è più generoso per altri meno. La discussione è già iniziata, la Commissione sta facendo delle valutazioni ma noi intanto nel Def abbiamo messo numeri che rispettano le regole attuali, con un deficit all’1,2%».

Il tema della condivisione dei rischi, posto con forza dall’Italia, è ancora sul tavolo? 
«Sì. La condivisione dei rischi si applica a vari capitoli, dalla tutela dei depositi bancari al mercato del lavoro, fino alla gestione del debito pubblico. Noi ne facciamo una questione generale: per stare insieme bisogna che tutti abbattano i propri rischi, siamo d’accordo, ma questo si può fare meglio se c’è condivisione».

I paesi del Nord non la pensano proprio così.
«La linea di Germania e Olanda è che prima di condividere i rischi ognuno dovrebbe ridurre i propri. Altri Paesi, tra cui l’Italia, ritengono che le due cose debbano andare insieme. Ora si tratta di uscire dal generico, ma il tema è già in agenda».

Partendo da dove?
«L’assicurazione comune contro la disoccupazione. Sei mesi fa sembrava un concetto impensabile ma nel penultimo Ecofin c’è stata una intera sessione dedicata a questo strumento. La maturazione dei temi è più rapida di quanto sembri da fuori».

Senta, davvero c’è qualcuno che vorrebbe l’Italia fuori dall’euro e sarebbe disposto a creare un nuovo caso Lehman?
«Credo che nessun collega europeo voglia vedere l’Italia fuori dall’euro, perché sarebbe un problema anche per lui. Però è diffusa l’idea che l’Italia non sia affidabile in tema di politica di bilancio, di riforme, di gestione della crisi bancaria. È una percezione che esiste. Dietro c’è la stessa idea che ci fu appunto ai tempi di Lehman: “Facciamone fallire una, così la gente si rende conto”. La tentazione ogni tanto riaffiora, non a livelli ufficiali ma nei corridoi. Si pensa magari che solo così l’Italia potrà imparare la lezione. Io combatto tenacemente contro questa visione, non solo perché l’Italia ha fatto molto per migliorare la propria situazione, ma anche perché se tutto ciò si avverasse le conseguenze non sarebbero più controllabili». 

Uno dei “compiti a casa” che più ci chiede l’Europa, è la riduzione del debito pubblico. Eppure, come detto, le privatizzazioni sono una delle questioni su cui un pezzo di maggioranza frena. Nel Def l’obiettivo è stato ridotto a soli 5 miliardi. Effetto del clima politico?
«No, la scelta è dettata da un atteggiamento più prudenziale sui numeri e da una valutazione tecnica sulla situazione dei mercati. Per ottenere quello 0,5 per cento di Pil, otto miliardi, dovremmo darci obiettivi non realistici sul fronte della valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico. Non è che siccome c’è stata una levata di scudi allora ci accontentiamo di un po’ meno».

E l’idea di ricorrere a strumenti “creativi”, con un ruolo di Cassa Depositi e Prestiti quanto può aiutare?
«Ho esposto in Consiglio dei ministri l’ipotesi in base alla quale il Mef potrebbe cedere le sue partecipazioni a Cdp, pur mantenendo il pieno controllo sulla gestione delle partecipate, e Cdp potrebbe effettuare una gestione attiva di questo portafoglio. Si tratta di attuare meccanismi finanziari focalizzati non tanto sulla cessione di una singola società, ma sull’idea che la ricchezza di proprietà pubblica venga riaggregata ed in parte valorizzata sul mercato. Ne abbiamo parlato, ma non sono state fatte cifre. Dovrà essere presa una decisione a livello politico».

Ad aumentare il debito contribuiranno anche i 10 miliardi di quest’anno dei 20 complessivi, per salvare le banche. A proposito, basteranno?
«Sì. Il fondo di ricapitalizzazione si utilizza a certe condizioni, in accordo con la Bce sulla quantità di capitale e con la Direzione europea della Concorrenza per quanto riguarda le regole sugli aiuti di Stato. Il negoziato sta andando avanti in modo serrato e positivo, per Mps e le banche venete. I problemi sono complessi, occorre fare in modo che le banche siano profittevoli perché i soldi dello Stato non devono andare a copertura di perdite e prima o poi devono tornare ai contribuenti».

Però quella delle banche italiane sembra una storia infinita. Quando si potrà tornare ad una certa normalità? E come se la immagina?
«Nel nuovo regime bancario europeo, che è molto stringente, il governo italiano ha fatto moltissimo. Siamo il primo Paese che ha messo in campo ed attuato lo strumento delle ricapitalizzazioni precauzionali. Poi abbiamo messo in campo tanti altri strumenti, dalla garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze al Patto marciano». 

Quello che consente alle banche di rientrare più facilmente delle garanzie se un imprenditore non onora il prestito...
«Tocca alle banche usare questi strumenti nel rapporto con i clienti, noi non le possiamo obbligare a fare contratti di un certo tipo. Io spero che il problema delle sofferenze sia rapidamente risolto, che si torni presto a livelli fisiologici. Vorrei convincere le banche e le imprese a mettersi d’accordo tra di loro con maggiore energia per liberarsi dei Npl, valutando le conseguenze sui bilanci ».

Delisterete Mps?
«Ora il lavoro è concentrato sul programma di ristrutturazione che è condizione per accedere alla ricapitalizzazione».

Un’altra cosa. Nel Def non sono stati stanziati gli ulteriori fondi per il rinnovo del contratto degli statali. I sindacati sono preoccupati.
«Il governo su questo punto ha preso un impegno. L’accordo del 30 novembre resta valido: nel Def non c’è scritto da nessuna parte che non lo rispetteremo».

Il processo della Brexit sta iniziando per davvero. Si può tentare una valutazione ragionata delle possibili conseguenze?
«C’è ancora molta incertezza su come il governo britannico intenda muoversi, su che tipo di dialogo si stabilirà con l’Europa. Questa incertezza si riflette anche sulle decisioni delle imprese. Io ho parlato con molti investitori internazionali chiedendo cosa pensino di fare e le risposte sono state le più diverse».

Quante probabilità ci sono che l’Italia si avvantaggi del trasferimento da Londra di operatori finanziari e istituzioni internazionali?
«Di sicuro ci sarà una rilocalizzazione dei servizi finanziari. Il governo pensa che Milano possa essere una sede interessante, per tante ragioni di ospitalità della città ma anche di convenienza. Abbiamo già introdotto alcune misure per facilitare lo spostamento del capitale umano. Anche nell’ultimo decreto di martedì scorso ci sono norme per semplificare e chiarire Il trattamento fiscale dei redditi dei manager: non si tratta di dare vantaggi ma di eliminare le incertezze. Poi stiamo lavorando per cercare di attrarre agenzie europee, in particolare l’Agenzia del farmaco che a Milano farebbe da polo di attrazione per le industrie farmaceutiche. Di fatto siamo in una fase in cui c’è competizione tra le varie città europee, Francoforte, Parigi, Amsterdam, Madrid».

Chi sta vincendo?
«Gli altri Paesi si sono mossi prima di noi, ora stiamo recuperando. Siamo già stati a Londra con il sindaco di Milano e il presidente della Regione a illustrare le potenzialità della città, e la prossima settimana lo farò anche a New York. La competizione non è semplice. ma siamo in partita».
Ultimo aggiornamento: 11:36 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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