Renzi, rottamazione addio: Matteo riscopre la parola "compagno"

Sabato 11 Marzo 2017 di Mario Ajello
Renzi
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dal nostro inviato
TORINO
Uguale ma diverso. E «non nascondo le cicatrici che ho addosso». Il Matteo Renzi bis, quello che riparte, è più concentrato sulla forza delle idee - infatti sono tornati gli intellettuali in questa kermesse pd al Lingotto - che sul carisma della propria leadership. Meno baldanzoso, rispetto all'ottimismo come panacea e come democratic's karma capace di vincere su tutto, e più preoccupato, non solo alla luce delle vicende Consip, per un Paese in cui il protagonismo dei giudici rischia di travolgere la normale fisiologia delle regole e dei poteri. E sembra diventato un fortino garantista questo spicchio di partito.

IL PROTOTIPO
In cui i militanti non sono più simili in nulla al prototipo della classica gente di sinistra sempre schierata a prescinde con i pm. Molti si affollano intorno a De Luca, che arriva in serata, dicendo con tono indignato: «'Sti magistrati... sti magistrati...», accompagnato dal figlio Piero, futuro candidato Pd in Parlamento, che confida: «Sono venuto a Torino soprattutto per vedere la Juventus». In platea si sentono discorsi così: «Colpiscono il segretario del nostro partito, vogliono uccidere la politica e prendersi tutto i magistrati». Sono finiti i distinguo. Si è spezzato il filo di una storia. E proprio in apertura di discorso, Renzi attacca: «Qualcuno sogna di riportare indietro le lancette della storia». Il riferimento è (anche) alle toghe, senza citare il caso Consip ma di quello sta parlando. E scatta il primo applauso.

Renzi è Renzi e non ce n'è un altro. Questo è vero. Ma si può anche restare se stessi e modificare il proprio approccio dopo i colpi ricevuti. Un iper-riformismo alla Macron (e «il grande socialista Delanoe voterà Macron contro i populisti») sembra ai suoi occhi la chiave della remuntada historica come quella del Barcellona l'altra sera.
E s'e mai visto Renzi citare Gramsci? Stavolta lo fa e non solo per esorcizzare la scissione, ma perché «il riformismo dal basso, quello che finora non siamo riusciti ad attuare, deve riuscire a fare egemonia, deve esprimere saperi e dettare l'agenda». E provare ad ascoltare. Non si tratta di una svolta dell'ultima ora ma di una sorta di mutazione politica. Quella del renzismo che si fa partito e non più Giglio Magico (ieri dei giglisti c'era solo Bonifazi).

IL NUOVO RAPPORTO
Quella di un nuovo rapporto tra cultura e politica, e Matteo questo intreccio non lo aveva mai valorizzato, salutato così dal filosofo Biagio De Giovanni, che viene dal Pci ala migliorista, ha fatto ora il suo ingresso nel Pd e divide la scena del Lingotto insieme a Beppe Vacca (massimo studioso di Gramsci), Claudia Mancina, il sociologo Mauro Magatti, il politologo Fabbrini e tanti altri sapienti: «Renzi ha capito - spiega De Giovanni - che con Di Maio alle porte andrà al potere l'incultura e la mancanza dei congiuntivi. E occorre rilanciare dunque e insistere sul fatto che la politica per ridare un senso a se stessa e al Paese non può più, come negli ultimi anni, essere disgiunta dal rapporto con gli intellettuali».

Gente, appunto, come De Giovanni, che dice cose un tempo eretiche e oggi accettatissime da questo mondo politico in subbuglio: «L'Italia sta correndo il rischio di trasformarsi in una Repubblica giudiziaria». Perfino una suora seduta in terza fila è, maccheronicamente, su questa linea. Dice Suor Serafina: «Capisco che il padre di Renzi se ne sia andato a Medjugorje. Gli stanno facendo passare le pene dell'inferno come se fosse già un condannato».

Il renzismo in modalità bis è quello che cambia anche la nomenclatura. Renzi ha affidato il partito a Maurizio Martina e insieme i due festeggiano sul palco dopo il discorso di Matteo. Non si tratta solo di una mossa anti-Orlando e anti-D'Alema e Bersani quella di affidarsi a Martina ma segna la consapevolezza, inedita finora nonostante tante parole, che serve un partito e qualcuno che - a differenza di Renzi - di partiti se ne intende pur non essendo un anziano.

IL FARO
Nel coté culturale, e programmatico, è invece Tommaso Nannicini il faro principale. Il Pd neo-renziano come un intellettuale collettivo? Non sono più espressioni desuete da queste parti. A un certo punto, e il riferimento è alle caste burocratiche, quelle europee, quelle dei togati, Renzi rilancia il concetto del «Primato della Politica». Più pensando ai pensatori liberali che a Togliatti, naturalmente. Iper-riformista ma non nuovista: questo il democratic's karma del Lingotto. Dove Matteo annuncia che verrà fondata una Frattochie 2.0. Rispolvera la parola «compagno» ma deideologizzata: «Compagno nella sua radice etimologica significa la cosa più importante che si ha».

Intanto i presenti vedono arrivare Stefano Graziano, ex presidente del Pd in Campania, finito sulla graticola mediatico-giudiziaria e poi risultato esente da ogni colpa, e lo accolgono come una vittima e come la brava persona che è. Ma occhio a Sergio Chiamparino. In tanti gli dicono sottovoce: «Sergio, hai ragione nelle tue critiche a Renzi, che è stato sempre chiuso nel suo cerchio magico». E lui scherzando: «Potete pure dirlo a voce alta ormai. È tornata la libertà di parola!». Chissà se è proprio così. E comunque il Renzi che non è diverso da prima è quello che ancora crede, nonostante tutto, in un Pd da 40 per cento. Ossia, ancora vocazione maggioritaria.

Ma intanto - tra una citazione di Olof Palme come il Veltroni lingottista e una di Orwell: «Patriottismo e sinistra dovranno prima o poi tornare insieme» - non potrà permettersi di non vincere, anzi dovrà vincere largamente, le primarie e il congresso.

Sennò la rottamazione, categoria sparita, tornerà a riguardarlo.

Ultimo aggiornamento: 12 Marzo, 09:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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