Se Francesco Le Foche, l’immunologo che giovedì è stato massacrato di pugni nel suo studio di via Po da un 36enne ora in carcere, è vivo lo deve a lui. A Manuel Basile, 39 anni, agente scelto di polizia che quel pomeriggio, libero dal servizio, passava in strada e attirato dalle urla che provenivano dal pian terreno del palazzo è entrato fermando l’aggressore.
Francesco Le Foche: «Perdono l’aggressore ma senza quel poliziotto forse ora sarei morto»
Manuel cosa è successo giovedì?
«Ero stato a fare una visita lì vicino e stavo camminando verso Termini. Abito a Fondi (Latina), sono un pendolare con Roma dove arrivo in treno per lavorare al Dagep, la Direzione centrale per gli affari generali e le politiche del personale, nella sezione che si occupa del piano “Marco Valerio” ossia dell’aiuto ai figli di colleghi che hanno problemi di salute. Ho sentito delle grida di terrore provenire da un androne, mi sono precipitato all’interno e davanti ai miei occhi si è spalancata una scena molto, molto forte: un energumeno era piegato su un uomo, il medico, a terra privo di sensi. Gli prendeva la testa e gliela sbatteva con forza contro il pavimento. Intorno c’erano una donna, la segretaria e degli altri pazienti, quasi tutti anziani».
«Ho pensato al modo migliore per mettere in salvo tutti quanti, le persone che erano lì e l’uomo a terra. Ho gridato con tutta la voce che avevo in gola “Ma che cavolo fai?”. Lui si è girato verso di me, mi ha guardato e allora io ho iniziato a parlare. Gli dicevo: “Ma ti rendi conto, perché lo hai fatto?”. E quello farfugliava qualcosa, a proposito di una visita che non era andata come pensava o qualcosa del genere, ma blaterava anche cose senza senso».
«Non mi pare mi abbia parlato di cani, ma era in confusione. A me interessava solo fargli perdere la morsa sul professore».
«Ha percorso 4/5 metri e mi è arrivato davanti, col suo viso fronte al mio. Lui è grosso ma anche io non sono piccolino. Ci siamo guardati negli occhi e gli ho detto “dai ora vieni fuori con me, parliamo meglio”».
«Ho capito dal suo fisico che era uno sportivo, io sono laureato in Scienze motorie e conosco le varie discipline. Gli ho chiesto quale attività facesse e lui ha iniziato a parlarmi della boxe, di un incontro importante che aveva vinto quando era più ragazzo. Nel frattempo era stato chiamato il 112».
«Non saprei quantificare in minuti dei momenti in cui la mia adrenalina, nonostante la calma mostrata, era a mille. Ne ho viste tante nel corso della mia carriera, sono stato anche in strada, ma quella scena nello studio, mi creda, è stata choccante. La responsabilità in quei frangenti era tanta».
«Ha ricominciato ad agitarsi, “adesso rientro e lo finisco”, ha detto. Ma fortunatamente è andato tutto bene. Prima, però, è arrivata l’ambulanza che ha preso il dottore per portarlo in ospedale. Ho continuato a parlare a una certa distanza con il 36enne per impedire che ostacolasse i soccorsi».
«Sì, il professore mi ha telefonato e mi ha ringraziato. “Se non ci fosse stato lei, sarei morto”, il suo commento. Sapere dall’ospedale che era vivo è stato un sollievo enorme. Quella sera sono rimasto a dormire a Roma da un collega per l’agitazione. Il giorno dopo non mi è sembrato vero di avere riportato a casa anche me stesso, riabbracciando mia moglie e mio figlio di tre anni».
«Avrei compromesso la situazione, mettendo in pericolo gli altri. La mia indole mansueta, poi, mi ha permesso di tranquillizzarlo».