Addio a Bevilacqua, visionario e poeta: una vita alla ricerca delle proprie radici

Martedì 10 Settembre 2013 di Renato Minore
Alberto Bevilacqua
Attilio Bertolucci, suo professore al liceo, ricordava l’adolescente che gli aveva consegnato un mannello di versi, una natura shelleyana di poeta ancora fanciullo, volto a seguire il trascolorare della luce, il vagare di nubi, il mutare dell'aria».





La precocità di Alberto Bevilacqua, con le poesie «furtive messe su certi foglietti specialmente nella stagione buona, quando l'Emilia brilla di grano e di papaveri tra le case della periferia», esplose quando, poco più che ventenne, pubblicò «La polvere sull’erba». Fissava, sul filo della ricostruzione lirica e memoriale, i contorni reali e storici della terra d'origine con timbro di affabulatore nato, legato a un’etnia percorsa, e poi ripercorsa, quasi senza pudore. Libro a suo modo "profetico", sulle lacerazioni e la condivisione della memoria nell'Italia del dopoguerra. Con l'appartenenza a un mondo, geograficamente determinato ma ricreato e re immaginato attraverso l'intreccio tra biografia, visionarietà e invenzione del suo brulicante sottosuolo interiore e la vita di Parma, città altera, ducale, industriale e città popolare, crepitante dell'Oltretorrente.





Quel momento storico di contrapposizione inestricabile si legava fatalmente al suo destino familiare, "shakespeariano". Da una parte la madre che rappresenta l'Oltretorrente e si oppone alla rivolta del ‘22 di Balbo. Dall'altro il padre, aviatore per gli squadristi, che diviene oggetto della vendetta partigiana senza essere stato fascista.





Bevilacqua vive la lacerazione sulla sua stessa persona, colpevole per alcuni e innocente per altri.





Figlio del bene e della colpa, figlio della contraddizione. Una doppia polarità inesorabilmente incomprensibile, un'insanabile inquietudine durata tutta l’esistenza. E di cui la Parma del melodramma e delle "vaghezie" è emblema, «oggetto di un transfert provocato dallo sguardo di un bambino "imprigionato"».





Nasce cosi Una città in amore, la costruzione di un quadro di storia italiana di cui la provincia parmense è nucleo vitale, sia nel momento d’iniziale fervida adesione sentimentale che in quello del successivo e progressivo allontanamento. Le tappe di questo itinerario creativo e conoscitivo sono alcuni romanzi fortunati. Ebbero tra l’altro il Campiello nel 1966 e uno Strega - molto contestato - nel 1968, attirarono su Bevilacqua legioni di lettori (e molte polemiche e rifiuti aprioristici) perché lui, piaccia o non piaccia, è stato in Italia tra i pochissimi scrittori autenticamente popolari della fine del secolo.



I suoi temi e le sue scelte suscitavano qualche volta perplessità per la tempestiva adesione ai gusti del lettore. Ma, se è innegabile la sensibile elasticità ai diversi modi del romanzo contemporaneo, c’è sempre una linea d’interna coerenza con l'impegno originario di approfondimento delle proprie radici. Il percorso creativo di Bevilacqua ricompone i suoi topoi in modi, forme, toni, strutture, punti di vista e lingue differenti. Ogni sua opera narrativa, scrive bene Alberto Bertoni «ha un’identità precisa, inconfondibile» nella direzione della rievocazione biografica e in quella della proiezione realistica in cui sempre più si afferma il gusto di una libera fantasia.





Per restare ai romanzi della fortunata stagione, ricostruita in un recente Meridiano che ha ben organizzato una fase creativa davvero felice cui sono seguite spesso repliche e dispersioni soprattutto nei successivi romanzi "magici", "spirituali", "al femminile" o scopertamente grotteschi: se "Una città in amore", offre un affresco brulicante di eroi ispirato alla struttura del melodramma, la "contraddizione" ricompare nel fortunato "La Califfa". Bevilacqua ne ricava anche un film con Tognazzi: è la sua prima regia: ne seguiranno altre non sempre fortunate da, Questa specie d'amore, Attenti al buffone, Le ombre di Danzica e Bosco d'amore. E sceglie come operaia dell'Oltretorrente, vitalistico alterego di Madame Bovary, Romy Schneider, la dolce principessa Sissi, quasi a rimarcare ancora di più la sua appartenenza alla bipolarità che lega in un unico destino entusiasmo e perdita, slancio primigenio e frustrazione del vitalismo, fierezza e abbandono.





A volte la tonalità della scrittura lo porta a enfatizzare maggiormente l’aspetto della desolazione, dell’irrimediabilità, dello scoraggiamento, come nel caso di "Questa specie d’amore". A volte crea un mondo di riferimenti mitici e fiabeschi , come "In una scandalosa giovinezza" né "I sensi incantati", attraverso l’invenzione continua della vita attraverso il sogno e del sogno attraverso la vita in destino visitato dai fantasmi che derivano dal dono emozionante di un delirio «creatori dei mondi».





Con i quaranta racconti di Una misteriosa felicità Bevilacqua scrive il suo romanzo più intenso. Si prova una sensazione di pulviscolare vitalità, una linfa"misteriosamente felice" che continua a passare per i corpi, nonostante delusioni, egoismi e aridità. Protagonista lo stesso narratore che ripercorre il cammino della propria formazione, dalla fanciullezza all'adolescenza, per attraversare una desolata maturità e immaginare, nel bellissimo, allegorico racconto finale la vecchiaia e la fine, il momento paradossalmente più sereno.



Infine: l’adolescente di Bertolucci aveva continuato per tutta la vita a scrivere versi, la poesia si era mantenuta «dettato primario», in piena autonomia rispetto alla narrativa e nel giusto incrocio di temi suggestioni segnali che dall’una conducono all’altra e viceversa.





Penso al suo libro più intenso, «La camera segreta» Bevilacqua "corre" sul filo dell’orizzonte, dove si profilano i suoi sentimenti e i luoghi amati, E secondo un’ossessione, un bisogno di ricostruzione di sé che lentamente afferra immagini, suoni, volti e ricordi «un’ossessione dell’origine» che si riconosce al fondo di sé e nelle proprie radici.





Il rimpianto di una caduta ma anche l'attaccamento alla sensazione di un originario splendore. Così, come intuì Sciascia, la sua radice intuitiva era ancora «una nevrosi di ritorno in cui la memoria non sceglie, non trasfigura, ma assume atrocemente tutto ciò che ritrova».
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