Domenica alle urne/Le strategie opposte per aiutare i candidati

Giovedì 22 Febbraio 2024 di Paolo Pombeni

Dalle elezioni in Sardegna molti si attendono indicazioni sull’evoluzione o meno del quadro politico nazionale. È la consueta tendenza a trasformare ogni risultato delle urne in un test per maggioranze e opposizioni e risale ad un’epoca in cui, essendo molto se non tutto dipendente da partiti nazionali che poi si strutturavano sui territori, era abbastanza ragionevole vederla in quel modo.


Se ciò valga ancora in una politica “liquida” come quella attuale è discutibile: più d’un segnale starebbe a dimostrare che gli inquadramenti stabili degli elettori in dipendenza da partiti gestiti a livello nazionale sono quanto meno in difficoltà.

In parallelo però è aumentata la personalizzazione della politica, il che ha portato sia al rafforzamento di leadership locali (i cosiddetti cacicchi), sia all’identificazione degli elettori in leader nazionali che diventano punti di riferimento quasi indipendenti dal loro incarnare l’adesione al partito come aggregazione più o meno ideologica o dalle valenze delle politiche locali. 


La Sardegna offre da questo punto di vista un caso interessante. Le coalizioni che qui fanno riferimento ai due blocchi nazionali, la maggioranza di governo da un lato ed i due maggiori partiti di opposizione dall’altro si stanno comportando in modo diverso quanto al rapporto coi loro leader romani. 

Il centrodestra ha infatti scelto di far chiudere la campagna elettorale col tradizionale comizio dei tre leader nazionali, Meloni, Salvini, Tajani. Il cosiddetto campo largo, cioè l’alleanza fra Pd e M5S, ha invece scelto di non far svolgere una manifestazione finale che vedesse insieme sul palco Conte e Schlein. Le ragioni sono più d’una, ma indubbiamente segnalano due diversi approcci al problema del rapporto con le leadership nazionali.


Da un lato c’è l’immagine che indubbiamente incarna Giorgia Meloni: non solo una leader che ha rovesciato consolidati equilibri del quadro politico italiano, ma un premier che si è imposto per capacità in politica internazionale e che guida saldamente la politica del governo. Si può o meno essere consenzienti con le sue azioni, ma che ci siano questi elementi è indubitabile. Di conseguenza lei è in grado di attrarre consenso anche a livello regionale, perché poi la maggior parte dei cittadini non si sente estranea alle sorti complessive del Paese e perché il successo è pur sempre un fattore che calamita consensi. È vero che la coalizione di centro destra non è esente da tensioni e lo si è visto con tutta evidenza anche nella vicenda delle candidature per la guida della regione, ma alla fine tutti comprendono che sarebbe pericoloso smarcarsi da una immagine vincente che è data da Meloni che guida una coalizione baciata dal successo. Non si può dimenticare che alla fine per tutti è la ricerca della vittoria per il centrodestra che fa premio e che questa non è percepita come possibile se si mette in discussione la leadership che l’ha realizzata alle elezioni politiche e di seguito al governo.


Dal lato opposto non c’è qualcosa di simile. Il campo largo è a livello nazionale percepito come una alleanza strumentale, senza un leader che si imponga per incarnarla e che abbia le caratteristiche per farlo. Non si può paragonare la concorrenza Meloni-Salvini con quella Schlein-Conte, per la semplice ragione che nel primo caso è sbilanciata a favore della premier che per ora non vede insidiata la sua guida né a livello di immagine, né a livello di gestione, mentre nel secondo caso è una competizione aperta fra i due sia per consistenza dei rispettivi elettorati non molto distanti nei sondaggi, sia per incapacità sinora dell’uno (a) di prevalere nettamente sull’altro (a).
Il timore dei candidati che pure hanno il sostegno del campo largo è di essere percepiti come frutto dei giochi “romani”, di finire nel tritacarne delle rivalità fra le componenti abbondantemente sottolineate dai media. È stato così nelle comunali a Verona e a Vicenza, dove già si erano visti i candidati di quella parte chiedere ai capi partito di starsene a casa, incassando in quei casi un successo elettorale che pareva difficile. Adesso il modulo viene riproposto in Sardegna dalla candidata Todde che insiste a proclamare che si tratta di una vicenda che riguarda i sardi e che lei si considera fuori dalle contese che a livello nazionale agitano i partiti che la sostengono.
È significativo che poi sia Conte che Schlein in Sardegna sono andati, ma non insieme, il che vuol dire che ciascuno ha fatto appello alla sua parte, ma non si è stati in grado di dare il messaggio che queste parti poi sono unite in un unitario soggetto politico. Era difficile sostenerlo sia perché né Conte, né Schlein riescono, almeno finora, ad imporsi come incarnazione di un progetto unitario, e del resto sarebbe difficile sostenerlo dal momento che almeno il Pd è percorso da tensioni interne e sull’isola anche da una scissione.


Piaccia o meno, il centrodestra dà invece l’immagine di avere in buona misura una sua ritrovata identità unitaria, certo con correnti, che però sembrano varianti di uno stesso spartito, e soprattutto possono proporre ad un’ampia quota del suo elettorato la guida di un leader che stacca gli altri (che questi ne siano o meno felici, poco importa).
Con ciò non si può certo concludere che la partita in Sardegna sia già stata decisa: anzi tutte le previsioni la danno aperta ed incerta. Resta però che il suo risultato darà qualche indicazione sul posizionamento delle diverse leadership nazionali oggi in campo: un dato tutt’altro che irrilevante in questi tempi così complicati.

Ultimo aggiornamento: 23:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA