Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Refn entra in un altro Walhalla, ma il "corpo" della moda diventa solo la "moda" del corpo

Sabato 11 Giugno 2016

La trama di “The neon demon” (presentato a Cannes dove ha spaccato la critica e lasciato indifferente la giuria) è molto semplice e non frega a nessuno: l’aspirante modella Jesse (Elle Fanning) cerca fortuna a Los Angeles, ma entra in un mondo crudele e perverso. Fine.
Il danese Nicolas Winding Refn estremizza lo scandaglio di un ambiente, esasperandone le ossessioni, ma è convinto che l’immagine contenga di per sé l’elemento fondamentale che aiuti a concepire, anche ideologicamente, il meccanismo identitario di un’esistenza. Delegando quindi a un modo voyueristico l’emblematica ascesa di una modella, finisce però per banalizzare un mondo assai più complesso delle figurine che presenta, come se affidandosi a quadri astratti e perfino allegorici bastasse a raccontare, con originalità, un circo già ampiamente scandagliato. In realtà Refn sembra firmare il film speculare al suo “Walhalla rising”, costruito anch’esso sulla rappresentazione parossistica e spettacolare del corpo.
Ribaltandone derivazioni e significati (maschile/femminile, forza/bellezza, redenzione/morte), il corpo non solo diventa la dimora unica del film, ma anche il luogo di battaglia per la sopravvivenza, esemplare arma di contrapposizione all’altro, sia un guerriero vichingo o un’altra modella avversaria. Così in un percorso ideale verso un’ipotetica Terra Santa (entrambi i film ne hanno una), si assiste a un sacrificio del corpo stesso (torture, anoressia eccetera), utile a raggiungere lo scopo.
Purtroppo Refn si accontenta ancora delle apparenze, appoggiandosi all’immaginario consolidato, dalla brutalità dei combattenti e i loro muscoli, all’eleganza delle modelle e le loro forme; in definitiva esibisce solo corpi da smantellare, non a caso in chiave horror, volendo essere anche disturbante, cannibalico e sessuale. Ma non osa sul serio: vorrebbe essere un po’ Lynch (ma non ha un “mondo proprio” dove farci entrare), un po’ Von Trier (del quale non possiede la potenza intellettuale della visione provocatoria), un po’ il suo amato Jodorowsky (ma senza la radicalità anarchica dell’immagine), un po’ Cronenberg (ma è più esornativo che spietato); e alla fine non è nemmeno Brian Yuzna, che con “Society” si mangiava letteralmente il corpo di una società senza alcuna morale. In definitiva qui alla fine brilla solo lo smalto (la fotografia sinestetica di Natasha Braier è superlativa), che dei corpi è solo un fugace abbellimento. Così il "corpo" della moda diventa soltanto la "moda" del corpo.

Voto: 1,5/5 Ultimo aggiornamento: 12-06-2016 12:47 © RIPRODUZIONE RISERVATA