Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Daniel Blake, la dignità che a questo mondo
manca sempre più: ma la Palma è un errore

Sabato 22 Ottobre 2016

È un peccato che forse il miglior film degli ultimi tempi di Ken Loach sia diventato paradossalmente oggetto di contestazione, ma l’inattesa Palma d’oro a Cannes, consegnata lo scorso maggio da George Miller ha destato perplessità e qualche rancore, sia perché il cinema del regista di “Mad max” è totalmente agli antipodi da quello del collega inglese, sia perché la giuria da lui presieduta non ha compreso l’urgenza di premiare altre opere che sul piano narrativo ed estetico erano decisamente più meritevoli ed interessanti e mostravano uno sguardo sul mondo e sul cinema non fossilizzato. Qui invece siamo fuori tempo massimo. Detto questo “Io, Daniel Blake” (con un ottimo Dave Johns) non è certo un film disprezzabile, ma nemmeno tra le opere indimenticabili di Loach, tra i pochi a vincere due volte sulla Croisette e anche allora, come oggi (era il 2006), con un altro lavoro (“Il vento che accarezza l’erba”) che avrebbe meritato minor entusiasmo da parte dei giurati.
Daniel Blake, colpito da infarto, si rivolge allo Stato per avere un’indennità di malattia, dopo aver lavorato una vita intera. Nell’attesa sfibrante che tale supporto gli venga concesso (la burocrazia britannica sembra quasi peggio di quella italiana) deve incredibilmente cercare un nuovo lavoro, anche se il medico gli ha proibito qualsiasi sforzo (è un falegname). Trova così ostacoli burocratici a non finire e una difficoltà generazionale a confrontarsi sul piano informatico: per Daniel, 60enne, il computer è un oggetto non semplice da maneggiare. Conosce una giovane ragazza (Katie, l’intensa Hayley Squires) con due figli a carico, costretta perfino a rubare per mantenere la famiglia: assieme cercano percorsi alternativi per sopravvivere e la loro lotta si fa sempre più estenuante, pur non mollando mai.
Tempi, luoghi e situazioni sono nel più classico Loach possibile, fedele al suo cinema politico, a quella divisione dogmatica tra buoni e cattivi, dove i buoni sono sempre tutti molto buoni e altrettanto lo sono i cattivi e anche qui le esagerazioni non mancano; ma è un regista che sa raccontare la realtà più dura, sincero e sempre affettuoso verso le classi sociali più deboli, ponendo al centro il cittadino schiacciato e indifeso, che chiede di essere trattato con dignità. Ecco la dignità (la lettera con cui si chiude il film) è lo snodo fondamentale. Ma da tempo non piovono più pietre e Loach oggi è sempre più pessimista (il toccante finale in questo è lampante). Non c’è più spazio per l’ironia, l’oggi sa solo uccidere.

Stelle: 3


PIU' LEGGERO DI UNA "PIUMA" - In concorso all’ultima Mostra, aveva destato parecchia perplessità per la sua presenza apparsa subito sproporzionata. Non perché ai festival le commedie non ci debbano stare, ma perché l’opera terza di Roan Johnson (già autore del grazioso “Fin qui tutto bene”) è davvero una storiella fragile e leggera, più di una “Piuma”, che ondeggia tra la sitcom e il canovaccio mocciano-mucciniano, con tentativi maldestri di fare dell'analisi sociologica sugli adolescenti di oggi.
Ogni tanto anche si ride, ma la relazione di Ferro e Cate, futuri genitori, finisce per portarsi dietro il consueto carosello macchiettistico, alcune metafore elementari (la paperella) e un finale-spot da Fertility day.

Stelle: 1½ Ultimo aggiornamento: 23-10-2016 14:36 © RIPRODUZIONE RISERVATA