Rapinano l'ufficio postale con le tute del 118: tre condanne

La sentenza in Corte di Cassazione

Giovedì 21 Marzo 2024 di Teodora Poeta
La Corte di Cassazione

Non riuscirono a portar via dall’ ufficio postale di Atri, in provincia di Teramo, 7.600 euro in contanti perché bloccati dalla polizia che intervenne prima che la banda potesse darsi alla fuga con l’auto lasciata in strada. Una dinamica che secondo i difensori dei tre malviventi, tutti all’epoca arrestati in flagranza di reato, avrebbe dovuto configurare una tentata rapina e non così come invece è stata loro contestata una rapina consumata. A sconfessare questa tesi i giudici della Cassazione davanti ai quali è stato presentato il ricorso dopo che i tre, tutti originari di Cerignola, lo scorso maggio si sono visti confermare dalla Corte d’Appello dell’Aquila la sentenza di condanna che era stata emessa pochi mesi prima dal gup di Teramo con il rito abbreviato ad un totale di 17 anni e 4 mesi di reclusione.

I giudici della Suprema corte recentemente hanno infatti dichiarato inammissibili i ricorsi, ribadendo che «il delitto di rapina si consuma nel momento in cui la cosa sottratta cade nel dominio esclusivo del soggetto agente, anche se per breve tempo e nello stesso luogo in cui si è verificata la sottrazione, e pur se, subito dopo il breve impossessamento, il soggetto agente sia costretto ad abbandonare la cosa sottratta per l’intervento dell’avente diritto o della forza pubblica».


Quella sera, era ottobre del 2021, i tre rapinatori, che all’epoca avevano 33, 31 e 29 anni, sono entrati nell’ ufficio postale di Atri centro quasi in orario di chiusura, intorno alle 19, vestiti con le tute del 118, travisati in volto con le mascherine chirurgiche e armati di pistole giocattolo, ma prive del tappo rosso. Il loro obiettivo era quello di riuscire a prendere l’ingente denaro custodito nel caveau, circa 215mila euro, e nell’Atm, circa 115mila euro, così come la direttrice stessa, presente durante la rapina, ha riferito poi a sommarie informazioni. Ma il colpo è andato diversamente perché fuori dall’ ufficio postale un passante ha notato la scena e ha chiamato immediatamente le forze dell’ordine. Ad intervenire sono state le pattuglie del commissariato di Atri che sono riuscite poi ad entrare e bloccare i malviventi che nel frattempo avevano colpito alla testa con il calcio di una delle pistole giocattolo un impiegato, ferendolo. I ricorsi in Cassazione si sono basati su un unico motivo, ossia che la rapina fosse stata solo tentata e non consumata poiché, in pratica, i 7.600 euro è vero, sì, che ce li avevano loro, ma «non ne potevano disporre autonomamente in quanto l’azione non era stata portata a termine e stazionavano ancora negli uffici delle Poste», hanno sostenuto i difensori degli imputati.
«Il fatto che lo specifico obiettivo iniziale dell’azione degli imputati potesse essere costituito dall’impossessamento delle somme che erano contenute nel caveau e nell’Atm dell’ ufficio postale non esclude che, con una risoluzione estemporanea, insorta in ragione dell’evolversi dell’azione - segnatamente, del fatto che, nel corso di essa, la direttrice dell’ ufficio postale si era trovata a detenere una busta contenente la somma di 7.600 euro - gli stessi si siano determinati a impossessarsi, dietro minaccia, di tale somma e ne abbiano effettivamente acquisito l’autonoma disponibilità, così consumando il delitto di rapina della stessa somma», hanno, invece, scritto i giudici della Cassazione.
 

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