«Profughi, non vogliamo l'accoglienza negli alberghi»

Giovedì 5 Marzo 2015
UDINE - «Basta accogliere profughi negli alberghi concentrando grandi numeri, occorre praticare l'accoglienza diffusa sul territorio. Lo abbiamo sempre sostenuto e dunque è positivo il ruolo assunto dalla Regione per un'azione di pressing e di regia affinché tutti i Comuni siano disponibili ad attuare questa strategia».
La considerazione è di quelle che pesano, perché a dirla è chi di emergenza immigrazione, accompagnamento, processo di integrazione, procedimenti burocratici, opportunità trovate anche tra norme che parrebbero non consentire alcunché ne ha fatto il «lavoro» quotidiano da anni, ogni giorno in frontiera. È il direttore della Caritas di Udine, don Luigi Gloazzo, che insieme a tutta la struttura udinese e alle Caritas di Pordenone e Gorizia in tempi non sospetti, e cioè nell'ultimo scorcio del 2014, ha deciso che una delle forme più incisive per «affrontare un fenomeno ormai strutturale», come quello dell'immigrazione è far conoscere esattamente ciò di cui si parla, perché «non siamo preparati». È nato così lo studio «Richiedenti asilo e rifugiati: perché aiutarli a casa nostra», laddove tra l'altro prima che la tesi fosse condivisa da media e istituzioni si raccontava di come «Tarvisio continua a essere la Lampedusa di molti profughi, soprattutto afghani e pakistani, il cui tragitto, poco conosciuto».
Ed è in queste stesse pagine che si dettaglia l'impegno delle Caritas in molteplici progetti di accoglienza dei richiedenti asilo, fra cui lo Sprar, che ora è stato assunto dalla Regione come modello replicabile per gestire anche l'emergenza. «La Regione ha fatto bene a scendere in campo - osserva Gloazzo -, poiché lo Sprar si basa sulla disponibilità volontaria dei Comuni ad accogliere e non ci si può nascondere che pochi sono i virtuosi».
Il suo, però, non è un indice contro, poiché l'accoglienza diffusa è convinto che debba essere «accompagnata». Nessuno, in sostanza, deve trovarsi da solo. «Non si può gestire questo fenomeno facendo una telefonata dal centro», afferma deciso don Gloazzo, con riferimento neppure velato a organi altro.
Lo stile dev'essere un altro: «Significa andare sul territorio, una volta che i Comuni hanno dato la disponibilità, per ragionare insieme», esplicita colui che è stato promotore del «progetto Nimis» e che si è subito confrontato con i sindaci di Tarvisio e Malborghetto quando nei giorni scorsi hanno deciso di affrontare la questione insieme. «Un approccio che è stata una conquista», commenta con soddisfazione don Gloazzo, che alla Caritas ha all'attivo dieci persone a tempo pieno - giovani preparati e motivati - per «l'animazione delle comunità sul territorio». Vuol dire «fare in modo che i profughi svolgano un servizio di volontariato, per esempio, e non stiano tutto il giorno sfaccendati, attivare corsi di lingua o segnalare quelli che sono già attivi, trovare forme di convivenza e integrazione costruttiva».
Attenzione però a non rendere l'accoglienza diffusa troppo parcellizzata. «L'ideale sarebbe che i Comuni riuscissero a mettersi in rete per ospitare in un ambito un certo numero di persone - per esempio una cinquantina -, in modo da rendere sostenibile economicamente i progetti di accompagnamento, utilizzando i fondi che dà lo Stato».
La Caritas si muove per individuare anche le strutture, perché alcune sono nelle disponibilità degli enti pubblici, altre bisogna trovarle sul mercato. Un operatore è a disposizione per preparare tutta l'istruttoria perché i richiedenti asilo presentino la domanda al Comitato di Gorizia. Attiva, non da ultimo, i volontari delle Caritas locali.
Funziona? «Sì, il modello funziona», risponde senza esitazione don Gloazzo. «Se anche i media diffondessero di più le buone pratiche esistenti anziché insistentemente amplificare una parte per il tutto, non si sarebbe neppure bisogno di porre la domanda», conclude.
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