Renzi non tratta più e va alla conta nel Pd

Sabato 29 Agosto 2015
«I numeri ci sono e la riforma costituzionale passerà al Senato anche stavolta». Al Nazareno, sede del Pd, sono tranquilli. Pronti alla sfida non tanto con l'opposizione e i suoi 600 mila emendamenti, quanto con la sinistra interna al partito che ieri l'altro Massimo D'Alema, dal palco della festa dell'Unità di Milano, ha chiamato a raccolta. C'è odore di scissione nelle parole dell'ex presidente del Consiglio che nel '96 fallì l'appuntamento con le riforme costituzionali nella Bicamerale con Silvio Berlusconi. Fu poi la volta del centrodestra che riuscì a votare in Parlamento una nuova riforma, salvo poi perdere - nel giugno del 2006 - il referendum che avrebbe dovuto confermare il lavoro di Camera e Senato.
Tra qualche settimana a palazzo Madama si voterà il terzo passaggio di una riforma che mette fine al bicameralismo perfetto e riscrive il Titolo V e relative competenze delle regioni. I guastatori sono però all'opera malgrado le recenti parole che l'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha affidato di recente al Corriere: «Non si sovrappongano a un confronto che resti nei limiti di una doverosa responsabilità comune, contrapposizioni politiche distruttive e puri artifizi polemici». Proprio ciò che invece sta accadendo e che rende l'appuntamento al Senato una sfida all'Ok Corral che segnerà la sorte anche di una parte del Partito Democratico di fatto già con la valigia pronta. «Renzi è il segretario del Pd ed è logico abbia a cuore l'unità del partito», sostengono i renziani, ma stavolta in gioco non è solo il ddl costituzionale, ma la stessa durata della legislatura nata, ricordano, «per fare le riforme costituzionali che renderanno più efficiente il nostro sistema». Visto che qualche modifica al testo di Montecitorio verrà fatta, al Senato stavolta non serviranno i fatidici 161 voti ma basterà la maggioranza semplice. Il testo dovrebbe quindi passare senza difficoltà, ma il nodo politico tutto interno al Pd, è destinato ad esplodere subito.
Infatti se i 25 senatori firmatari del documento favorevole a ripristinare quel Senato elettivo che tanto piace anche a funzionari e dirigenti di palazzo Madama, voteranno contro non condividendo neppure la proposta di mediazione del capogruppo del Pd, Luigi Zanda, l'uscita dal Pd viene data per scontata. Solo a quel punto si capirà se il testo è destinato a venire affossato nella quarta lettura quando serviranno i 161 voti. Renzi e il ministro Boschi non hanno più voglia di trattare e sono pronti a lanciare alla massima velocità il treno delle riforme in modo da poter celebrare il referendum confermativo a metà del prossimo anno.
La pattuglia composta al Senato da Denis Verdini con i fuoriusciti da FI rischia però di non bastare ed è quello che in sostanza spera Silvio Berlusconi che, dopo aver fatto votare per due volte la stessa riforma, vorrebbe ora rinegoziare con Renzi un nuovo patto del Nazareno solo dopo aver lavato l'onta subita al momento dell'elezione del capo dello Stato. Renzi però rifiuta anche la mano tesa del Cavaliere e va diritto allo scontro anche perché - è il ragionamento che si fa a palazzo Chigi - per fare un nuovo accordo con Forza Italia c'è sempre tempo e realizzarlo dopo un passaggio elettorale consentirebbe a Renzi di spazzare via dai gruppi del Pd parte di quella sinistra (da Gotor a Chiti passando per Fornaro) che vuole la sua testa.
Tra gli elementi di una battaglia dove alla fine uno solo resterà in piedi, c'è però il “generale-vitalizio”. Il meccanismo, introdotto dal 2012, prevede l'erogazione della “pensione” a 65 anni solo dopo aver effettuato i fatidici 4 anni, sei mesi ed un giorno di legislatura. Il motivo che potrebbe spingere alcuni senatori, prosaicamente interessati a non interrompere la legislatura, ad evitare il ritorno alle urne.
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