La festa è finita, bus gratuiti e ancora code ai bancomat

Martedì 7 Luglio 2015
La festa è già finita. In piena notte il fronte del no ha sbaraccato le postazioni di piazza Syntagma, le musiche si sono spente, i cori smorzati. L'euforia di domenica sera si è tramutata in un pacato orgoglio patrio, la «piccola nazione ellenica» non ha chinato il capo davanti al gigante europeo e ne va fiera. Adesso però è di nuovo in attesa: le incognite sul futuro sono tutte lì, il referendum non le ha cancellate. Ma non c'è panico, non c'è paura. Da sei anni i greci vivono sul filo del rasoio, ormai ci hanno fatto il callo. Il 61,3% di «no» che al resto del continente appare come un cambiamento epocale o nel peggiore dei casi un punto di non ritorno, ad Atene viene vissuto come un gesto di dignità. Tutto è come due giorni fa. Le file ai bancomat, gli autobus gratis, i negozianti sull'uscio in attesa di clienti che non arrivano, le tv sintonizzate sui canali del dibattito politico. E' mutato lo stato d'animo generale. Che è poi lo stato d'animo di Giorgia: «Nessuno vuole uscire dall'Europa, né rinunciare all'euro. Abbiamo solo detto che meritiamo rispetto».
Giorgia gestisce con la sorella un piccolo ristorante a Exarhia, rione di artisti e di anarchici. Fa i conti: negli ultimi giorni i clienti sono calati del 25%. «Normale, con il razionamento dei contanti». Spaventate? «No, la Grecia vuole un accordo giusto, l'Europa non può più dirci di no. Sappiamo che molte cose da noi devono cambiare e migliorare. Bruxelles lo capirà, e fra qualche giorno tutto tornerà come prima». Lei crede all'ottimismo ostentato da Tsipras, la maggioranza dei greci ci crede. Oggi di più.
Due isolati più su c'è la sede del Pasok, il partito socialista ellenico. Pare la piccola sede sgangherata di un circolo privato, niente insegne, le vetrine frantumate dai periodici raid anarchici: immagine della decadenza di un partito che a inizio crisi stava al 44%, e a gennaio scorso è sceso al 4. Il Pasok era per il «sì», come tutti i partiti storici. La botta fa male, nessuno che voglia parlare. Una mestizia che racconta inequivocabilmente la fine di un'epoca politica.
In questo – prima ancora che nei rapporti con l'Europa – la Grecia ha voltato pagina. Nelle strade intorno al Parlamento, la zona più ricca di Atene, i «sì» sono stati più che altrove e oggi ci sono parecchi musi lunghi in giro. Non è rabbia, è rassegnazione: «Molta gente ha votato per il no perché non crede più che le cose possano cambiare. Magari hanno ragione loro» dice Demetrio, patron di una boutique di lusso appena sfiorato dalla crisi. Una cliente se ne va con un pareo da 130 euro e ride: «Dai, non è finito il mondo». Davanti alla fermata del metro di Panipistimio la coda al bancomat della banca del Pireo è particolarmente lunga. Ancora solo 60 euro di prelievo a testa. Il governo aveva detto che oggi finirà. Non ci crede nessuno. Marito e moglie in attesa scherzano: «Se può servire a far cambiare idea alla Merkel possiamo andare avanti così ancora per settimane». Questo ha restituito il referendum ai greci: la voglia di resistere che sembrava svanita, fiaccata da anni di sacrifici che hanno distrutto la classe media, e mantenuto i privilegi assurdi di pochi. Un paio di chilometri più a nord, non ci sono file ai bancomat. Non ci sono neppure i bancomat. Bafis è una zona di degrado, senzatetto a ogni a ogni angolo, zingari che vendono a un euro sacchetti di verdure appassite, negozi sbarrati, bar deserti. Qui, più che il «sì» o il «no», ha vinto l'astensione. Nel referendum che doveva cambiare la storia uno su due non ha votato, la storia per loro è finita, la storia non può cambiare. Yanis aveva tre negozi, ora vive solo in una mansarda, i pochi spiccioli che racimola vanno in birra: «Referendum? Boh».
Ecco, forse è per evitare di finire come sono finiti quelli di Bafis che i greci hanno scelto di affidarsi a Tsipras, a Varoufakis, alle loro grida di battaglia, alla loro sfida al mondo. Nei discorsi della gente normale le immagini in giro per la città si ripetono uguali: «Davide contro Golia», «uno schiaffo ai prepotenti», «voglia di ricominciare». Perso per perso, meglio combattere che farsi trascinare lentamente nel gorgo della miseria: «Siamo anche noi europei, vogliamo esserlo. Da domenica lo siamo ancora di più».
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