Dalla speranza alla concretezza:
il difficile cammino del Pd in Veneto

Martedì 27 Maggio 2014 di Roberto Papetti
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Speranza e paura. Sono le due parole chiave per interpretare il clamoroso risultato elettorale di domenica. Un trionfo che, va subito detto, ha un solo nome: quello di Matteo Renzi. Assai più marginale è stato invece il ruolo del suo partito. Anzi, anche se a molti ora farà comodo dimenticarlo, non si può sottacere che, in questi mesi, settori tutt’altro che marginali del Pd hanno indossato i panni degli oppositori più determinati e insidiosi del premier. Ma anche questa volontà di non piegarsi alle liturgie e ai condizionamenti dell'apparato, di rompere con la tradizione ex Pci ancora egemone dentro il Pd, ha contribuito a modellare e dare forza all'immagine rinnovatrice di Renzi, consentendogli di sfondare in fasce di elettorato che nel passato mai avevano votato Pd. L'ex sindaco ha saputo interpretare, dentro e fuori il suo partito, un sentimento molto diffuso e trasversale: la speranza di cambiamento, di rottura non traumatica ma concreta, dei perversi meccanismi che bloccano il Paese, la vita dei cittadini e delle imprese.



I suoi critici sostengono che questa volontà di rottura Renzi, più che realizzarla, l'abbia sinora soprattutto comunicata, seppur con grande efficacia. Questo è vero e su ciò infatti si giocherà la capacità del premier di dare continuità e consistenza all'exploit elettorale di domenica. Ma Renzi, in realtà, alcuni segnali concreti in questi mesi li ha mandati. E in più direzioni. L'attenzione degli avversari e dei media si è concentrata soprattutto sugli 80 euro di sgravi ai lavoratori dipendenti a basso reddito. Ma non va sottovalutato che, per esempio, Renzi ha rotto il tabù della concertazione, sottraendo nei fatti ai sindacati, e alla Cgil in particolare, un diritto di veto che valeva da decenni. Renzi ha anche introdotto il primo vero tetto agli stipendi dei manager pubblici: scelta non priva di venature demagogiche, ma reale e di indubbio impatto su alcune fasce dell'elettorato.



La spinta propulsiva di Renzi non avrebbe però avuto il travolgente esito che ha avuto, se accanto al bisogno di speranza, nell'elettorato non si fosse insinuato anche un altro sentimento: la paura. La paura di un successo di Grillo e delle sue possibili conseguenze. Un'inquietudine che il crescendo di sparate dell'ex comico ha enfatizzato e che lo stesso Berlusconi ha legittimato lanciando più volte negli ultimi giorni della campagna elettorale l'allarme Grillo. Ciò ha spinto settori dell'elettorato moderato a vincere la tentazione dell'astensionismo o a cambiare cavallo e a dare il proprio voto all'unica forza che, in questa sorta di derby elettorale d'Italia, aveva i numeri per battere Grillo, cioè il Pd. Da questo punto di vista la scelta di ingaggiare un testa a testa con Renzi ha mostrato tutta la fragilità politica di Beppe Grillo, che ha finito con il confondere gli umori della sua platea con quelli del resto del pubblico, ossia del Paese. Un clamoroso errore di valutazione che un comico si può forse permettere, ma che rischia di essere devastante per un leader politico.



Se questi, speranza e paura, sono stati i fattori trainanti del successo renziano, il premier ha molte ragioni per gioire, ma sa anche che per conservare l'enorme e trasversale mole di consensi raccolta domenica, in prospettiva deve avere la capacità e il coraggio di andare oltre. Già alle prossime regionali del 2015 a paura e speranza andranno sostituite le ragioni della coerenza e della concretezza del cambiamento. Dalla suggestione delle riforme si deve rapidamente passare alla loro realizzazione. Una sfida per nulla scontata, ma lo straordinario successo ottenuto domenica non consente a Renzi di fallire: il 41% dei voti ottenuti, anche se "solo" alle Europee, è un patrimonio di consensi che toglie al premier ogni alibi e lo obbliga a realizzare ciò che ha promesso.



Passando da Bruxelles al Nordest, il voto di domenica non è stato meno clamoroso. In Veneto per la prima volta il centrosinistra, con il 37,5% del Pd, supera il centrodestra e questo è un segnale assai importante in vista delle Regionali del 2015. Certo, trasferire meccanicamente alle Amministrative i risultati di una sfida così diversa e particolare come sono le Europee, non è corretto e rischia di indurre in clamorosi errori. Tuttavia alcune significative indicazioni il voto le ha fornite. La prima: il centrosinistra, storicamente relegato all'opposizione in Veneto, ha oggi la concreta e chiara possibilità di conquistare la guida della Regione. Per farlo, però, non potrà fare affidamento solo sull'"effetto Matteo". Dovrà individuare e far emergere una propria leadership, rompendo vecchie incrostazioni e, come è successo per certi aspetti in Friuli Venezia Giulia con Debora Serracchiani, individuare per tempo una figura in grado di spezzare equilibri consolidati e catalizzare consensi e speranze. Per ora tuttavia, al di là delle dichiarazioni di facciata, il Pd veneto appare indeciso, incartato nelle proprie dinamiche interne e ancora lontano da una soluzione condivisa. Ma i tempi ormai stringono. Come in un gioco di specchi, la condizione del centrodestra veneto, dopo queste Europee, sembra essere esattamente opposta a quella del Pd: è assai più debole elettoralmente, ma ha visto rafforzarsi, all'interno della coalizione, la posizione del suo leader naturale, il governatore uscente, Luca Zaia. In Veneto a queste Europee, la Lega, seppur lontana dai suo record e sempre percorsa dai conflitti tra tosiani e non, ha ottenuto il miglior risultato a livello nazionale (il 15,4%) ed è risultata il primo partito del centrodestra, con gli ex Pdl, divisi da personalismi e guerre di potere, a inseguire. Difficile, di fronte a questi dati e al consenso personale che Zaia ha sempre avuto, ipotizzare a centrodestra (e anche nella stessa Lega) una candidatura a governatore diversa dalla sua. A meno che non sia lo stesso Zaia a decidere diversamente. Ma anche questa è una domanda a cui in tempi brevi andrà data una risposta.
Ultimo aggiornamento: 14:13