Violenza negli stadi, ecco come combattere il fenomeno

Lunedì 7 Luglio 2014
A chi si occupa di psicologia dello sport da anni, certo qualche volta è capitato di dare la propria opinione sulla violenza fuori e dentro gli stadi di calcio. A maggior ragione sull'urgenza di una notizia di cronaca (nera) sportiva i media fibrillano nel cercare di comprendere e di dare una risposta, avvalendosi di esperti giornalisti, scrittori di grande rilievo, politici, dirigenza sportiva e così via, come è giusto che sia. Poi di solito tutto finisce lì , fino alla prossima volta.



Numerosi sono oramai gli episodi di violenza, sopraffazione e intimidazione che il mondo del calcio, non solo a livello professionistico, ma purtroppo anche nel settore giovanile, genera e subisce. L’argomento è del resto ben dibattuto e studiato da molti anni tra gli psicologi definiti dello sport. Mi colpisce sempre, come ci si stupisca ogni volta dell’evento efferato e tragico così che ognuno dice la sua mostrando sdegno, stupore, incoerenza e dando l’impressione a volte che non si viva tutti nello stesso paese.



Eppure basta un semplice esperimento che consiste nel digitare su Google “violenza negli stadi” per ritrovarsi una sequenza quasi infinita di link . Il tema non sembra quindi sottovalutato, e andando a leggere qualcuna di queste voci del web troviamo i più diversi punti di vista: a favore e sfavore degli ultrà, a favore e contro le forze dell'ordine, critiche sulle società di calcio, critiche verso i giocatori, i giornalisti sportivi e così via. Non si può quindi liquidare la faccenda pensando solo ad uno sfogo di “popolo” sull'onda emotiva.



Allora davanti a tutto questo scrivere, commentare e pubblicare nasce un desiderio a me, psicologo dello sport (termine improprio nonostante lo svolga dal 1988) di dire la mia per quel che vale e di farlo anche in un momento in cui il Mondiale di calcio riempie le prime pagine di tutti i quotidiani e le scalette dei giornali radio e televisivi.



Così per completezza di pareri ed opinioni, anche perché i comportamenti apparentemente illogici, la violenza collettiva non finalizzata, i riti che perdono la loro valenza simbolica, un po’ la psicologia la riguardano, mi pare. Non è certo possibile in questa sede addentrarsi troppo nell’analisi. Rimando per questo ai testi ed ai lavori pubblicati o ad un altro momento di approfondimento se mai verrà l’occasione. Ma in estrema sintesi: si può fare qualcosa? Naturalmente si. Ogni componente coinvolta in questo fenomeno è tenuta a fare qualcosa. Così il mondo della politica, quello dello sport, quello mediatico e anche il mondo scientifico. Anche la Psicologia dello sport quindi, che opera spesso ed opportunamente in grande silenzio. La psicologia offre una chiave di lettura ed anche indicazioni. Certo da sola non basta, ma ognuno ha il dovere di portare il proprio chicco di riso, o in altre parole di contribuire come può nel mondo in cui vive. Per quanto detto sopra non dobbiamo quindi troppo sorprenderci per le violenze che possono accompagnare le partite di calcio (e non è qualcosa che riguarda solo le categorie più importanti come purtroppo la cronaca ci ricorda). Le competizioni sportive di squadra favoriscono l'emergere di emozioni che sembrano essere direttamente proporzionali al numero di spettatori presenti rappresentanti le diverse tifoserie. Le ingiustizie in campo (vere o presunte) dell'arbitro o dei giocatori della squadra avversaria incrementano la reazione aggressiva e l'identificazione con la squadra.



L'impotenza di fronte a palesi o credute tali, ingiustizie durante la partita, incrementa il desiderio di una risposta aggressiva su un oggetto esterno (cose e o persone). L’enfasi mediatica, a volte ridondante e amplificatrice fino alla distorsione dell’informazione, alimenta e tiene viva l’emozione, il sentimento, anche nelle sue parti deteriori. Una prima cosa da fare è rispondere ad una domanda: siamo veramente disposti a diminuire il coinvolgimento emotivo in una partita di calcio? Se la risposta è si, naturalmente c'è un prezzo da pagare. Per esempio un seguito più eterogeneo ma meno fedele . Non volendo attribuire le cause del malessere alla società attuale (anche se in parte è così, ma è troppo comodo ), e considerando limitante il pensare agli ultrà come persone disturbate che in ogni caso agirebbero con comportamenti antisociali (anche se in parte sembra vero) , rifletto su cosa è possibile fare dal punto di vista della psicologia dello sport.



Tre sono gli ambiti principali di studio e di successiva messa a punto di interventi con cui credo si dovrebbe cominciare:

1 - formazione ed educazione nelle scuole calcio, effettiva e verificata, non solo sulla carta (azione preventiva coinvolgendo tutte le figure)

2 - diminuzione dell'enfasi emotiva su una partita presentata più come un duello che come un evento sportivo (lavoro sulla comunicazione)

3 - analisi ed interventi per abbassare l'impatto emotivo prima dell'ingresso allo stadio e durante le partite (azione sul territorio).



Naturalmente i tre ambiti richiedono uno studio accurato ed un confronto interdisciplinare, con verifiche in itinere. Alcuni effetti potrebbero vedersi in tempi brevi, altri innescano processi di cambiamento che potranno essere valutati dopo anni. Questo, per dire che non siamo impotenti e che non mancano strumenti. Le scelte del come, per quanto tempo e con chi svolgerle, non dipendono solo dalla psicologia dello sport, ma da altre istituzioni coinvolte e da altre volontà.



Si attribuisce a Winston Churchill la frase: “Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio”. Si potrebbe in chiusura aggiungere con molta amarezza: sembra che gli Italiani vadano alle partite di calcio come si va in guerra.



Michele Modenese

psicologo dello sport
Ultimo aggiornamento: 10 Luglio, 11:56