​E Napolitano ammise: «Il ricatto ci fu
Anche per Ciampi si rischiò il golpe»

Sabato 1 Novembre 2014 di Silvia Barocci
​E Napolitano ammise: «Il ricatto ci fu Anche per Ciampi si rischiò il golpe»
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La parola «ricatto» a pronunciarla è lui stesso. Assieme a termini altrettanto forti quali «colpo di Stato» e «aut aut». Perché, per descrivere «i nuovi sussulti di una strategia stragista dell’ala più aggressiva di Cosa Nostra, i corleonesi», Giorgio Napolitano attinge a ricordi lontani ma ancora vivi di un clima di tensione, quello delle stragi e delle bombe del ’93, raccontato attraverso i suoi rapporti con Ciampi, l’allora capo del governo che gli riferì del timore di un golpe quando saltarono i centralini di palazzo Chigi, la notte degli attentati del luglio ’93 a Firenze e a Roma. «Fibrillazioni» condivise con Spadolini e Scalfaro, la «triade» al vertice di uno Stato allora sotto attacco.

Uno Stato che, secondo la procura di Palermo, potrebbe aver ceduto al ricatto e dunque aver trattato con la mafia. Le 86 pagine di deposizione del Capo dello Stato all’udienza di martedì scorso al Quirinale, dinanzi alla Corte di Assise di Palermo, sono un grande affresco. Con poche novità utili sul piano processuale - a parte l’inedita circostanza che l’ex presidente della Commissione antimafia Violante informò l’allora presidente della Camera Napolitano sulla richiesta di Vito Ciancimino di essere ascoltato a Palazzo San Macuto - ma certamente interessanti per ricostruire un clima.

LA LINEA SOTTILE

Napolitano non si è sottratto, pur essendo stato ampliato in extremis agli anni 89-’93 il tema di una testimonianza fissata in origine sui timori che Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Quirinale, gli mise per iscritto cinque settimane prima di morire. Se quei sospetti su «indicibili accordi» avessero avuto «un sostegno oggettivo» il «magistrato eccellente» D’Ambrosio - è certo - avrebbe «saputo benissimo quale era il suo dovere e cioè riferire agli inquirenti». Per il resto il Capo dello Stato ha risposto a tutte e 78 le domande poste principalmente dal procuratore aggiunto di Palermo Teresi, dal sostituto procuratore Di Matteo e dal difensore di Riina, Cianferoni. Talvolta ammettendo di non ricordare proprio, a dispetto della sua «memoria da elefante» o «da Pico della Mirandola», ma comunque decidendo di dare una risposta anche ad alcune delle domande che il presidente della Corte stava per dichiarare inammissibili. Consapevole - è stata la premessa - di trovarsi «su una linea sottile»: da un lato «quello che non debbo dire non perché abbia qualcosa da nascondere, ma perché la Costituzione prevede che non lo dica», dall’altro «quello che intendo dire per facilitare il più possibile il processo di chiarificazione di una Repubblica e anche lo sviluppo della legittimazione di indagine e processuale della magistratura».

RICATTO E GOLPE

Le bombe e i morti del ’93, appena un anno dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino, furono «ricatto o addirittura pressione a scopo destabilizzante di tutto il sistema», secondo una logica - è la risposta di Napolitano a una precisa domanda al pm Di Matteo - che «apparve unica e incalzante, per mettere i pubblici poteri di fronte a degli aut aut». Con quale scopo? Che questi «aut aut potessero avere per sbocco una richiesta di alleggerimento delle misure soprattutto di custodia in carcere dei mafiosi o potessero avere per sbocco la destabilizzazione politico-istituzionale del Paese naturalmente - secondo Napolitano - era ed è materia opinabile». In ogni caso «non ci fu assolutamente sottovalutazione» da parte delle istituzioni. Tant’è che l’allora premier Ciampi aveva temuto un golpe. E aveva condiviso il timore con lo stesso Napolitano, quando la notte tra il 27 e il 28 luglio del ’93 ci fu un black-out telefonico a Palazzo Chigi» «Lo ricordo benissimo poteva considerarsi un classico ingrediente di colpo di Stato anche del tipo verificatosi in altri paesi non lontano dal nostro». «Una fibrillazione istituzionale molto rilevante?», domanda Di Matteo. «Certamente, quando il Presidente del Consiglio dice abbiamo rischiato il colpo di Stato, se non c’è allora fibrillazione vuol dire che il corpo non risponde a nessuno stimolo».

LA TRIADE

Di quel rischio di golpe, di quella strategia stragista dell’ala corleonese Napolitano ne parlò con Scalfaro e Spadolini, all’epoca rispettivamente Capo dello Stato e presidente del Senato? Eravamo una sorta di «triade istituzionale, e quindi si parlò anche di questo» ma «i contenuti specifici di quella conversazione del ’93 non li potrei ricordare». Di Matteo vuole saperne di più, anche sulla nota riservata che l’8 agosto del ’93 l’allora capo della Dia, De Gennaro, inviò anche all’Antimafia per mettere in guardia sul pericolo di un ”primo cedimento dello Stato” che l’eventuale revoca del 41 bis ai mafiosi avrebbe comportato. «Francamente non credo di poter rispondere», «anche supponendo che io abbia una memoria che farebbe impallidire Pico della Mirandola». Nessun ricordo neppure su iniziative parlamentari per chiudere le super carceri di Pianosa e Asinara, né su intoppi per non convertire in legge il decreto sul 41 bis. Anzi - ha sottolineato - «sono convinto che la tragedia di via D'Amelio rappresentò un colpo di acceleratore decisivo per la conversione del decreto legge 8 giugno '92 sul carcere duro». Era a conoscenza Napolitano del minaccioso esposto a Scalfaro recapitato dai familiari dei detenuti in 41 bis nel febbraio del ’93? Qui i ricordi del presidente si annebbiano: «Se ne parlò tanto anche sulla stampa, ma di quella lettera non ricordo di avere avuto mai copia per notizia». E’ a questo punto che Di Matteo si permette di ”correggere” il presidente, perché l’esistenza di quella lettera è stata accertata solo pochi anni fa. E dunque il pm di Palermo passa ad altre domande, «anche per non indurla in un eventuale equivoco, Presidente».

VIOLANTE E CIANCIMINO

La notizia più interessante arriva invece da un ricordo inedito: «molto probabilmente lo stesso Violante» disse a Napolitano che Vito Ciancimino voleva essere ascoltato in Antimafia e che «l’orientamento assunto fu negativo». Circostanza, questa, che ha indotto il presidente della Corte a fare le uniche e ultime domande al teste: Violante fece allora il nome di Mori, il generale del Ros ora imputato al processo sulla trattativa e che si ritiene abbia fatto da tramite con l’allora presidente dell’Antimafia per un incontro riserbato? «No». Chissà se questa risposta aprirà (forse) altri scenari al processo che riprenderà il prossimo 6 novembre a Palermo.

Ultimo aggiornamento: 2 Novembre, 10:21

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