Direzione Pd, sì a mozione su Jobs Act, ma Bersani e D'Alema durissimi con Renzi. E la minoranza si divide

Lunedì 29 Settembre 2014
Direzione Pd, sì a mozione su Jobs Act, ma Bersani e D'Alema durissimi con Renzi. E la minoranza si divide
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Il Jobs act passa le forche caudine della direzione Pd. Ma il partito si spacca: i s sono 120, i no 20, 11 gli astenuti.

Non riesce dunque a convincere la minoranza democrat la mediazione che, senza «cedere a compromessi», Matteo Renzi mette sul dialogo. Il premier non solo concede il reintegro per motivi disciplinari, oltre che discriminatori. Ma riapre anche la sala verde di Palazzo Chigi ai sindacati.

Bene il confronto, replicano le sigle confederali, ma resta la minaccia dello sciopero generale se verranno toccati i diritti di chi gode dell'articolo 18. Mentre la minoranza del Pd, per nulla tenera con il segretario in direzione, sposta il confronto nelle Aule parlamentari. E intanto si divide. I «dialoganti» di Area riformista si astengono sul documento che cristallizza la relazione del segretario. Un fronte trasversale di venti che include Bersani e D'Alema, ma anche Fassina, Boccia, D'Attorre, Cuperlo, Damiano e Civati, vota no. In Parlamento, avverte però Renzi, tutti dovranno adeguarsi.

Di primo mattino Matteo Renzi sale a piedi al Quirinale. Con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano fa il punto sulle riforme, a partire da quella del lavoro, al centro di uno scontro potenzialmente deflagrande nel Pd e con i sindacati. Mentre è in corso il colloquio al Colle, Cgil, Cisl e Uil si incontrano per elaborare «una piattaforma unitaria», che per ora non c'è. Intanto, tra Montecitorio e il Nazareno, inizia la girandola di incontri delle varie anime della minoranza Pd. I contatti con Palazzo Chigi vanno avanti fino all'ultimo. Poi, davanti a una platea in cui siedono anche i 'big' della «vecchia guardia», da Bersani a D'Alema a Marini, Renzi prende la parola.

E subito dichiara che, nel nome di una «profonda riorganizzazione del mercato del lavoro e del sistema del welfare», il Pd deve «votare con chiarezza» in direzione «un documento che segni il cammino» del Jobs act e consenta di «superare alcuni tabù», a partire dall'art.18. «Le mediazioni vanno bene, ma i compromessi non si fanno a tutti i costi», ribadisce il segretario. «Non siamo un club di filosofi ma un partito che discute e si divide ma decide e all'esterno è tutto insieme», dichiara. «È vero che chi non la pensa come la segreteria non è uno dei Flintstones», concede a Cuperlo. Ma, chiosa, «chi la pensa come la segreteria non è come Margareth Thatcher». «Sinistra è cambiamento, non lascio ad altri l'esclusiva della parola sinistra» e, aggiuge, la politica non può delegare le scelte a «editoriali, salotti, tecnocrazia». Questa volta, però, il premier non evoca il decreto, il voto di fiducia o addirittura le urne. Bensì sillaba parole che una parte della minoranza legge come una concreta offerta di medazione. «L'attuale sistema del reintegro va superato certo lasciandolo per discriminatorio e disciplinare», dice. Una novità, dal momento che finora il governo aveva garantito il reintegro solo per licenziamento discriminatorio. Ribadisce che saranno eliminati i co.co.co. e annuncia che in legge di stabilità ci saranno 1,5 miliardi per i nuovi ammortizzatori sociali e 2 mld per il taglio del cuneo. Poi, l'apertura inedita ai sindacati che pure, ribadisce, hanno «drammatiche responsabilità»: «Sono pronto a riaprire la sala verde a Cgil, Cisl e Uil» su tre temi, «una legge sulla rappresentazione sindacale; la contrattazione di secondo livello e il salario minimo».

I sindacati confederali rispondono di essere pronti al confronto. Ma non si sentono rassicurati sul tema dell'articolo 18. La linea di Renzi, sottolinea la Cgil, resta «ancora vaga, indefinita e contraddittoria». E anche la Uil avverte: «Se si toccano le tutele di chi già ce le ha e non si prevedono tutele crescenti per chi non le ha, sarà sciopero generale».

Intanto, in direzione si consuma la rottura con la minoranza. Si cerca fino all'ultimo di elaborare un documento unitario, ma quando Renzi non accetta il compromesso sul reintegro per motivi economici, l'intesa salta.

Nel dibattito lungo oltre quattro ore, i più duri sono D'Alema e Bersani. «Meno slogan, meno spot e un'azione di governo più riflettuta credo possa essere la via per ottenere maggiori risultati», avverte l'ex premier. Mentre l'ex segretario evoca il «metodo Boffo» contro gli oppositori e dice lapidario: «C'è un deficit di sostanza riformatrice». In tanti sottolineano che le risorse per i nuovi ammortizzatori non sono sufficienti. E alla fine D'Attorre annuncia la presentazione di un documento alternativo a quello di Renzi. Ma il segretario è netto: «Alla fine si vota allo stesso modo in Parlamento. Questa è la stella polare».

È convocata per le 11 l'assemblea dei senatori del Pd chiamata a decidere la linea per l'Aula sul Jobs act. La convocazione viene confermata da fonti di Palazzo Madama.

Chi ha votato contro. Massimo D'Alema e Pierluigi Bersani sono tra i venti esponenti della Direzione del Pd ad aver votato contro la relazione di Matteo Renzi. Tra i contrari Pippo Civati e gli esponenti della sua componente (Felice Casson, Cosseddu, Sarracino, Brignone, Terragni e Cova). Dei bersaniani hanno votato «no» Stefano Fassina, Alfredo D'Attorre, Gianni Cuperlo, Barbara Pollastrini, Roberta D'Agostini, Davide Zoggia, così come il presidente della commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano. Contro la relazione di Renzi anche il «lettiano» Francesco Boccia e la «bindiana» Margherita Miotto.

Ultimo aggiornamento: 30 Settembre, 10:04 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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