La moschea dell’ingegnere cecchino:
«Qui i predicatori a reclutare»

Lunedì 29 Giugno 2015 di Nino Cirillo
La moschea dell’ingegnere cecchino: «Qui i predicatori a reclutare»
KAROUAN (Tunisia) L’uomo del kalashnikov a tracolla, il cecchino seriale di Sousse, veniva a pregare qui. Una pompa di benzina sullo spiazzo, un modesto supermarket proprio a fianco, e la moschea aperta, la sua moschea. In arabo dedicata a Gafrhon, il perdono di Dio, e per un assurdo contrappasso proprio al centro di Gharbya, periferia della città, che sempre in arabo vuol dire Occidente. Pare di vederlo, Seifaddine Rezgui, caracollare con la malagrazia dei suoi verdi anni verso l’entrata. Invece c’è soltanto un medicante all’ingresso e dentro, la moschea è vuota. Se solo restasse un dubbio, una sola residua speranza di aver sbagliato, ecco che arriva un jeeppone bianco a sgombrare il campo: polizia, documenti, perché state scattando foto?



NEL TUNNEL Eh già, la stanno sorvegliando ventiquattro ore su ventiquattro questa piccola, apparentemente innocua moschea, magari sperando che qualcuno dei suoi amici, dei suoi complici torni, si tradisca, fornisca una qualche traccia. Che si presenti a spiegare, soprattutto, come Seifaddine in quel tunnel ci è potuto finire, come l’ha potuto imboccare, perché non si è fermato in tempo. Se lo sta chiedendo tutta Karouan in queste ore, nelle 135 moschee della Medina e nelle seicento moschee del circondario, nella città santa della Tunisia, città venerabile per l’Islam, quarta al mondo per importanza dopo La Mecca, Medina dell’Arabia saudita e Gerusalemme, e addirittura prima del Cairo.




Una specie di sogno a occhi aperti in questa giornata d’estate, se a ogni passo non ci fosse qualcuno a ricordare che è una roccaforte salafita, con la sua università il vero avamposto della jihad in Tunisia. Il problema se l’è posto per primo il tassista, che con l’auto gialla non ha voluto viaggiare fino a qui. Un’anonima Peugeot bianca, trovata alla periferia di Sousse, si sarebbe dimostrata molto più adatta e soprattutto più discreta. Sessanta chilometri dal mare, una fettuccia d’asfalto verso l’interno, verso l’odiato confine con l’Algeria, sulle tracce di Rezgui e della sua follia.



L’IMAM Provi a fingerti turista, ma non funziona. L’imam della Grande Moschea - milleseicento anni di incredibili ricami sui soffitti, di cisterne d’acqua piovana pazzesche, che a volerle ben definire si chiamano “bacini aghlabidi”, e il Ramadan in corso, un estenuante percorso di salvezza - aspetta al varco. Non ha paura né di microfoni, né di telecamere. Si chiama Taieb Ghozzi e guida questa comunità religiosa dal 1982: «No, io questo Rezgui non l’ho mai visto».



Ma non è un modo per tirarsi indietro: «L’avranno agganciato quelli della Jihad, sarà stato usato ecco, questo io credo. Proprio lui, un ragazzo che studiava la danza...». Siamo qui, caro imam, perché Karouan oggi sembra la città più pericolosa del mondo. «Non è pericolosa questa città. È vero piuttosto che uno, due anni fa si son presentati tutti qui, tutti predicatori improvvisati, tutti arrivati dalla Libia, e nessuno li ha fermati. Lo ricordo ancora, cominciarono a sventolare un sacco di bandiere nere». Voi e la Jihad, dov’è il confine?



«Essere salafita è corretto dal punto di vista religioso, ma il loro è un altro livello, inaccettabile». Ma le sue moschee, quante ne sono state chiuse e quante ne verrano chiuse? Non vacilla l’imam, si aggrappa al suo improvvisato traduttore: «Negli ultimi sei-sette mesi qui a Karouan ne sono state chiuse cinquanta. Tutte quelle che non andavano nella direzione del governo. Adesso non so che cosa potrà ancora accadere».



Alza il velo, proprio lui, su una mezza bugia: il piano annunciato dal governo tunisino dopo la strage di Sousse, tre giorni fa, in realtà sta andando avanti da tempo. Le 80 moschee da chiudere «entro una settimana» sembrano solo l’ultima tranche, l’ultimo spezzone di irriducibili da mettere con le spalle al muro. Le parole dell’imam rimandano anche a un’altra considerazione, e questa riguarda strettamente proprio Rezgui, il breakdancer, lo studente universitario arrivato da Siliana - sta lontana da qui, altri sessanta chilometri verso il Nord e l’interno - che decise di farsi informatico e di inseguire il suo sogno bastardo proprio fra i vicoli di Karouan, nell’appartamentino appena passato al setaccio dalla poliozia. Più una «ricerca di identità», dicono oggi i sociologi, che un «moto di rabbia sociale».



I LUCCHETTI AI GARAGE Rimanda a lui perché se in questi mesi già cinquanta moscheee di Karouan sono state chiuse, vuol dire che i lucchetti li hanno messi alle casette anonime, ai garage, a quei mezzi ripostigli che i reclutatori di terroristi avevano scelto come terreno di coltura. Sono rimaste su piazza, insomma, soltanto moschee apparentemente presentabili come quella di Gapfrhon. Dove gli alfieri del Daesh - l’acronimo arabo di Isis - continuano a presentarsi saltando dall’una all’altra. Per confondere le idee e per aumentare le possibilità di proselitismo. Karouan prega: qualcosa succederà.
Ultimo aggiornamento: 13:01
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