«Leader arabi vergognatevi»: il dolore del padre di Aylan diventa campagna virale sui social mediorientali

Sabato 5 Settembre 2015 di Giulia Aubry
Una delle vignette satiriche della campagna #shameonarabrulers

“Leader arabi vergognatevi!”. È questa la reazione dei social media nel mondo arabo dopo aver ascoltato le parole del padre di Aylan, il bambino di 3 anni annegato di fronte alla Turchia e la cui immagine ha ormai fatto il giro del mondo.

Le sue parole sono quelle di un padre che ha visto i figli scivolargli dalle mani e sparire tra le onde. Le parole di un marito che non potrà mai più abbracciare la moglie. Le parole di un uomo che voleva portare la sua famiglia lontano dalla guerra e dalla distruzione e che, invece, è dovuto tornare indietro per seppellirli nella sua Kobane.

Ma la voce di Abdullah Kurdi oggi è forte, come probabilmente non lo sarà mai più. E sono tantissimi i media pronti a raccogliere tutte le sue parole e tanti coloro che le ascoltano, in Europa come nei paesi del Medio Oriente. Così quando la terra ha finito di ricoprire le piccole bare all’interno delle quali giacciono i suoi figli, Abdullah si è rivolto ai giornalisti presenti senza preoccuparsi delle conseguenze, con la forza che solo la disperazione di un lutto come questo può dare. “Io voglio che i governi Arabi, e non i paesi europei, vedano cosa è successo ai miei figli – ha dichiarato, secondo le traduzioni della stampa internazionale – e, per questo, comincino ad aiutare le persone”. “Non voglio nient’altro. – ha continuato – Tutta la mia famiglia è morta. Ora loro sono dei martiri”. “Spero che i paesi arabi – ha concluso – comincino ad aiutare chi ha bisogno e che contribuiscano a porre fine a questa guerra, perché tutti noi ne abbiamo abbastanza”.

Di fronte alle parole di un padre distrutto che adesso non vuole più andare in Europa o in Canada, “perché non ha più senso senza la mia famiglia”, il mondo dei social media ha risposto con una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica mediorientale (e internazionale). L'obiettivo è convincere i paesi più ricchi del Golfo Persico ad aprire le loro frontiere e a far entrare – temporaneamente – i profughi siriani che non possono più essere ospitati nei campi sovraffollati di Turchia, Giordania e Libano, e che sono ormai oltre metà della popolazione residente quattro anni fa in Siria. Un’emergenza in crescita se si pensa che oltre 7 milioni e mezzo di siriani sono ospitati in campi interni al paese e vanno a costituire le cosiddette internally dispiaced persons, gli sfollati interni costretti a spostarsi nel paese, man mano che i conflitti tra le diverse fazioni distruggono le strutture di accoglienza. Uomini, donne e bambini che nei prossimi mesi potrebbero vedersi costretti a varcare i confini del loro paese che, pure, non avrebbero mai voluto abbandonare. È per loro che gli attivisti mediorientali, con tutte le difficoltà proprie dei sistemi politici delle nazioni in cui vivono, si stanno mobilitando. Perché non si debbano più piangere altre decine, centinaia di Aylan, come sta avvenendo ormai da tempo.

Ultimo aggiornamento: 6 Settembre, 10:16

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