Dall'autoritratto al selfie: come
si è perpetuato il mito di Narciso

Lunedì 28 Aprile 2014 di Riccardo De Palo
Dall'autoritratto al selfie: come si è perpetuato il mito di Narciso
Cosa ne stato dell’autoritratto nel mondo della “riproducibilit tecnica”? Un’esplosione di selfie, inviati su scala globale attraverso i social network.

La parola, da poco entrata nel dizionario Oxford dell’inglese parlato, è diventata di uso comune grazie alla grande diffusione delle macchine compatte digitali, e degli smartphone dotati di sensore adeguato. A volte il termine viene usato anche a sproposito. In un sito di fotografie online, a corredo di una galleria di ritratti di uomini illustri del Cinquecento, compariva la seguente didascalia: «I musei sono pieni di selfie del Rinascimento». Ma come si è arrivati a questa vera e propria ossessione per l’autoscatto (più o meno artistico), e l’autoritratto in generale? Da dove nasce la mania, tutta moderna, del mito di Narciso, innamorato della propria effigie?



IL SAGGIO

Un libro appena pubblicato, L’autoritratto - una storia culturale (Einaudi, 288 pagine, 28 euro) cerca di rispondere a questa domanda, mostrando come, attraverso i secoli, l’uomo, e gli artisti in particolare, abbiano cercato di raffigurare se stessi, dai primi scriba che fanno capolino nelle pergamene delle miniature medioevali, fino al boom del Rinascimento e all’esordio della fotografia e della scultura auto-referenziale. L’autore, il critico e storico dell’arte britannico James Hall, non usa mai la parola fatidicaselfie, ma utilizza il self-portrait come grimaldello per capire il fenomeno, per comprendere come siamo arrivati a questo punto. Un uomo allo specchio, presumibilmente l’autore, appare per la prima volta, con tutta la sua potenza espressiva, ne I coniugi Arnolfini, del pittore fiammingo Jan van Eyck, e nello stupefacente Uomo col turbante, che a metà del Quattrocento può ben dirsi il primo cultore dell’autoritratto. Ma è proprio lo specchio, e la sua diffusione nel mondo, che scatena la moda di ritrarre la propria immagine, e di utilizzarla come mezzo di promozione personale, così come oggi si mette la nostra foto meglio riuscita nella home page del social network preferito. Lorenzo Ghiberti compare con un altro turbante in una delle porte settentrionali del Battistero di Firenze, dove è possibile vederlo ancora oggi. Ma è il Rinascimento che consente l’esplosione del fenomeno, e l’ascesa di un nuovo tipo di artista, eroico e sensuale. Albrecht Dürer ritrae se stesso da bambino, in età giovanile e matura, esibendo una capigliatura fluente e articolata, in pose simili a quelle di un moderno Jesus Christ Superstar.



CARICATURE

Ben più severo (ma non per questo meno ironico) era il divino Michelangelo Buonarroti, autore di un autoritratto caricaturale abbozzato a corredo di un sonetto sulla pergamena che, come Giorgione, prende gusto a identificarsi con il giovane e mitico Davide. Il che, scrive Hall, «suggerisce una concezione dell’arte nuova, più iconoclastica, dove il giovane abbatte il vecchio e dove il genio è innato più che appreso». Celebre è l’autoritratto di Raffaello, vanto degli Uffizi. E desta ancor oggi stupore quello del Pamigianino, dipinto come se fosse stato copiato da uno specchio convesso, del tipo di quelli utilizzati da tante dame e pittori. Desta ammirazione anche l’autoritratto in miniatura di Sofonisba Anguissola, dipinto su un medaglione, che reca le stilizzate iniziali del nome del padre; ma è un’altra rara pittrice del suo tempo, Artemisia Gentileschi, a diventare “eroica” a sua volta, con la sua Allegoria della pittura, probabilmente dipinto alla corte di Carlo I d’Inghilterra, con quella posa di tre quarti, che cerca di eguagliare l’imponenza fisica dei corpi di Michelangelo, e il suo modo di rappresentare l’arte come una passione di rara intensità. Molto più tardi sarà Frida Kahlo a raccontare con simile passione i propri tormenti fisici e interiori.



DAVIDE E GOLIA

Poi vengono gli autoritratti “eroicomici”, e qui è Caravaggio a farla da padrone. Nel Bacchino malatoappare con una posa sfrontata, e l’aspetto cadaverico; al contrario di altri suoi colleghi, dona la testa a Golia, appena ucciso da Davide. Simile ironia aveva mostrato il Buonarroti, che nel Giudizio universale donava le sue sembianze alla pelle scorticata di San Bartolomeo, che possiamo rimirare nella Cappella Sistina.



Un “selfie” più intimista, più autoreferenziale, è la comparsa dello studio dell’artista in certe opere di Nicolas Poussin. Ma è Jan Vermeer a far esaltare l’atelier personale (che non era certo quello raffigurato) nell’Arte della pittura. E inarrivabile resta il quasi contemporaneo Las Meninas, di Diego Velázquez. Il pittore appare a margine della scena, intento a dipingere, probabilmente, il re la regina. Una vera «teologia della pittura», come la definì Luca Giordano.



Un altro “fissato” era Rembrandt, che esibiva volentieri i capelli scarmigliati e il naso rosso della maturità in tanti quadri celebri. L’inglese Joshua Reynolds e, soprattutto, il francese Gustave Courbet, seppero rompere gli schemi, con le braccia alzate in posizioni insolite, con giochi di luce e situazioni mai osate. Ma il vero rivoluzionario fu Van Gogh, con le sue pennellate nervose, l’arancio acceso della barba e l’orecchio mozzato, o la semplice sedia dell’artista, delegata a rappresentare il suo aspetto.



ESIBIZIONISMO

Di qui, arrivare a Picasso, a Andy Warhol e Giuseppe Penone il passo è breve. Se l’inventore della Pop Art seppe spingere il narcisismo al suo massimo storico (e fu duramente attaccato per questo), oggi sculture come quelle di Jeff Koons con Ilona Staller non rievocano altro che vuoto esibizionismo. Ben diverse le installazioni del giapponese Orimoto Tatsumi. Con la serie Art Mama ha raccontato un dramma personale, quello della madre malata di Alzheimer. In una foto si vede l’artista con i genitori in una casa tradizionale, che fanno capolino da una scatola di cartone.
Ultimo aggiornamento: 08:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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